LICENZIAMENTO - PATTO DI PROVA - Cass. civ. Sez. lavoro, 03-07-2018, n. 17358

LICENZIAMENTO - PATTO DI PROVA - Cass. civ. Sez. lavoro, 03-07-2018, n. 17358

Il licenziamento intimato sull'erroneo presupposto della validità del patto di prova, in realtà affetto da nullità per essere già avvenuta con esito positivo la sperimentazione del rapporto tra le parti, non è sottratto all'applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti, sicché la tutela da riconoscere al prestatore di lavoro è quella prevista dall'art. 18 St.Lav. ove il datore di lavoro non alleghi e dimostri l'insussistenza del relativo requisito dimensionale. Ciò in quanto la libera recedibilità nell'ambito del patto di prova, sia pure nei limiti indicati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, presuppone che il patto di prova sia stato validamente apposto; pertanto, ove ne difettino i requisiti di sostanza e di forma richiesti dalla legge, la nullità della clausola, che, essendo parziale, non si estende all'intero contratto, ne determina la conversione – in senso atecnico – in uno ordinario, con applicabilità del relativo regime di tutela in ipotesi di licenziamenti individuali illegittimi, dovendo procedersi alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio - Presidente -

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni - Consigliere -

Dott. LORITO Matilde - rel. Consigliere -

Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere -

Dott. AMENDOLA Fabrizio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorso 19906/2016 proposto da:

MAGEST S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE REGINA MARGHERITA 42, presso lo studio degli Avvocati ANTONIO DE PAOLIS, PAOLO ERMINI, che la rappresentano e difendono, giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro

P.P.;

- intimato -

avverso la sentenza n. 842/2016 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 17/02/2016 R.G.N. 3068/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/03/2018 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l'Avvocato PAOLO ERMINI.

Svolgimento del processo

La Corte d'appello di Roma, con sentenza depositata in data 17/2/2016, confermava la pronuncia resa dal giudice di prima istanza che aveva accertato la nullità del patto di prova della durata di 90 giorni apposto al contratto di lavoro intercorso fra P.P. e la s.r.l. Magest dichiarando illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore in data 21/4/2010 ed applicando la tutela reintegratoria e risarcitoria approntata dalla L. n. 300 del 1970, art. 18.

La Corte distrettuale, nel pervenire a tale convincimento sulla premessa della ritualità della notifica del ricorso introduttivo di primo grado perchè compiuta presso la sede legale della società e ricevuta da personale addetto alla sede, nonchè della ritualità della comunicazione del decreto di fissazione d'udienza perchè recante una correzione perfettamente intellegibile, argomentava che il patto di prova era da ritenersi nullo in quanto solo in grado di appello - tardivamente, quindi - la società aveva allegato circostanze idonee a dimostrare la necessità di durata superiore del patto di prova rispetto a quella prevista dal c.c.n.l. di settore. La Corte territoriale confermava, poi, la statuizione del primo giudice inerente alla applicabilità della tutela reale e respingeva l'eccezione di aliunde perceptum e percipiendum in quanto tardivamente sollevata solo in sede di gravame.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la società affidato a quattro motivi illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c..

La parte intimata non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

1.Con il primo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 45 c.c.art. 46 c.c., comma 2, e art. 2193 c.c., nonchè della L. n. 890 del 1982, art. 7.

Ci si duole che la Corte territoriale non abbia attribuito alcuna rilevanza alla circostanza che il ricorrente, pur mostrando di sapere che la sede della società era diversa da quella risultante dai pubblici registri, aveva del tutto omesso di notificare l'atto presso la sede effettiva.

2. Il motivo è infondato.

Secondo i dicta di questa Corte, qui condivisi, in tema di notifiche alle persone giuridiche, in caso di divergenza tra la sede legale e quella effettiva, la prevalenza del principio di effettività contenuto nell'art.46 cod. civ. deve essere comunque coordinata con la tutela dell'affidamento dei terzi, con la conseguenza che in tale fattispecie la sede legale non può essere ritenuta priva di rilevanza, ma - al più - ad essa può equipararsi quella effettiva (vedi Cass. 27/10/2010 n. 21942).

E' quindi conforme a diritto la statuizione del giudice del gravame che ha ritenuto ritualmente dichiarata in prime cure la contumacia della società, per esser stato il ricorso introduttivo notificato alla persona giuridica ex art. 145 c.p.c., presso la sede legale della società (come desumibile dalla visura camerale prodotta) e ricevuto da persona a tale sede addetta.

3. Il secondo motivo prospetta nullità del procedimento e della sentenza per violazione degli artt. 46, 163, 164, 184 bis e 415 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Si stigmatizza l'impugnata sentenza per aver ritenuto rituale la notifica del ricorso di primo grado nonostante che l'allegato decreto di fissazione dell'udienza di cui all'art. 420 c.p.c., recasse una data corretta a penna, il che avrebbe reso incerta la data effettiva dell'udienza medesima.

4. Anche tale motivo è privo di fondamento.

La statuizione oggetto di critica si è, invero, conformata all'orientamento espresso da questa Corte, e che va qui ribadito, secondo cui la correzione degli errori materiali contenuti nel verbale di causa, eseguita con una procedura difforme da quella prevista dall'art. 46 disp. att. c.p.c., non è causa di alcuna nullità e produce gli stessi effetti della correzione regolarmente eseguita, con la conseguenza che il verbale ha comunque fede privilegiata; pertanto, ove si contesti la rispondenza al vero della parte corretta, va proposta querela di falso (cfr. Cass. 5/4/2012 n.5542).

5. Con il terzo mezzo si denuncia violazione degli artt. 112 e 414 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., n. 4, nonchè della L. n. 108 del 1990, artt. 2 e 3L. n. 300 de 1970, artt. 18 e 35.

Si prospetta vizio di ultrapetizione per avere il giudice del gravame applicato la tutela reale sancita dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, benchè il lavoratore avesse invocato, a sostegno del diritto azionato, la tutela di diritto comune.

6. La censura è priva di pregio.

Occorre premettere che secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) od a quello del "tantum devolutum quantum appellatum" (art. 345 cod. proc. civ.), trattandosi in tal caso della denuncia di un "error in procedendo" che attribuisce alla Corte di cassazione il potere-dovere di procedere direttamente all'esame e all'interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e deduzioni delle parti (vedi, ex plurímis, Cass. 10/10/2014 n. 21421).

Orbene, in applicazione di detti principi ed all'esito della disamina del tenore del ricorso introduttivo del giudizio, si impone l'evidenza che il petitum del ricorso concerneva proprio il ripristino del rapporto di lavoro e la condanna al pagamento delle retribuzioni maturate dal dì del licenziamento sino all'effettiva reintegra.

Correttamente, quindi, il giudice del gravame ha applicato la richiesta tutela reale, in consonanza con i dicta di questa Suprema Corte secondo cui il licenziamento intimato sull'erroneo presupposto della validità del patto di prova, in realtà affetto da nullità per essere già avvenuta con esito positivo la sperimentazione del rapporto tra le parti, non è sottratto all'applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti, sicchè la tutela da riconoscere al prestatore di lavoro è quella prevista dall'art. 18 st. lav. ove il datore di lavoro non alleghi e dimostri l'insussistenza del relativo requisito dimensionale (cfr. Cass. 12/9/2016 n. 17921).

Ciò in quanto la libera recedibilità nell'ambito del patto di prova, sia pure nei limiti indicati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, presuppone che il patto di prova sia stato validamente apposto; pertanto, ove ne difettino i requisiti di sostanza e di forma richiesti dalla legge, la nullità della clausola, che essendo parziale non si estende all'intero contratto, ne determina la conversione (in senso atecnico) in uno ordinario, con applicabilità del relativo regime di tutela in ipotesi di licenziamenti individuali illegittimi (vedi, in motivazione, Cass. cit. n.17921/2016, nonchè Cass. 18/11/2000 n. 14950), dovendo procedersi alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo" (Cass. 19/8/2005 n. 17045 e negli stessi termini Cass. 22/3/1994 n. 2728).

A tali principi si è conformata la pronuncia in esame che, ritenendo il licenziamento "pacificamente irrogato con riferimento all'art. 2096 c.c." ... "avvenuto oltre il 45° giorno allorquando il rapporto di lavoro era già consolidato come a tempo indeterminato", ha accertato la carenza di giusta causa o di giustificato motivo dello stesso, facendo applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte in merito all'onere della prova gravante sul datore di lavoro, anche in relazione al requisito dimensionale.

7. Con il quarto motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1227 e 2697 c.c., nonchè degli artt. 421 e 437 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

Deduce che l'onere di dimostrare il pregiudizio subito graverebbe a carico del lavoratore, anche per quanto attiene all'aliunde perceptum, sottolineando al riguardo di aver eccepito nel giudizio di merito il reperimento da parte del P., nel periodo 2010-2014, di altra occupazione e di aver sollecitato l'esercizio di poteri officiosi volti a pervenire all'accertamento della verità materiale. Erroneamente - si prosegue in ricorso - era stata dichiarata dal giudice del gravame la tardività dell'eccezione sollevata solo in grado di appello, giacchè, secondo il costante orientamento espresso in sede di legittimità, trattandosi di eccezione in senso lato essa ben potesse sollevarsi anche nel secondo grado di giudizio.

8. Il motivo va disatteso.

Secondo il fermo orientamento espresso da questa Corte, e che va qui ribadito, in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l'ausilio di presunzioni semplici, della prova dell'"aliunde perceptum" o dell'"aliunde percipiendum", a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall'azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l'onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito (cfr. Cass. 17/11/2010 n.23226); è altresì principio consolidato quello in base al quale l'aliunde perceptum non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto ed è, pertanto, rilevabile anche d'ufficio dal giudice; tale potere officioso, tuttavia, può essere congruamente esercitato solo se le relative circostanze di fatto risultino ritualmente acquisite al processo, anche se per iniziativa del lavoratore (ex plurimis, vedi Cass. 25/7/2013 n. 18093).

Ciò si verifica quando vi sia stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possano ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti. In tal caso il giudice può trarne d'ufficio (anche nel silenzio della parte interessata ed anche se l'acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (vedi Cass. 26/10/2010 n. 21919).

9. Nello specifico detto requisito è da ritenersi carente, mancando evidenza di una specifica tempestiva allegazione del fatto - che va comunque ritualmente inserito nella dinamica processuale - sin dalla memoria difensiva del giudizio di primo grado; in tal senso il motivo reca un evidente difetto di specificità ex art. 366 c.p.c., n. 6, di cui è corollario il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, difettando una riproduzione del tenore dell'atto, coessenziale alla verifica della fondatezza della formulata doglianza.

In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

Nessuna statuizione consegue in ordine alle spese giudiziali inerenti al presente giudizio di legittimità, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.

Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto l'art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dell'obbligo di versamento, da parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2018


Avv. Francesco Botta

Rimani aggiornato, seguici su Facebook